I come from Naples!
Do you know Naples?
I love Naples!
Con il sorriso largo sulle labbra e l’orgoglio forte e sano nel cuore ho pronunciato più volte queste parole, sempre estasiato dalla sublime visione del Golfo. Mi fermo ad ammirare Napoli quando abbraccia con foga l’aria trasparente e l’azzurro violento del mare; quando si fa cupa, splendente di grigio amaranto; quando ama perdersi e risalire nella propria nebbia; quando si posa a risplendere nei bagliori vivi e densi del pomeriggio; quando il sole stanco e pesante si liquefa nelle onde del suo mare; quando viene accennata e punzecchiata dalle luci artificiali che sciamano, si rincorrono, si tuffano e si imbrigliano nei suoi fondali.
Perché devo fermarmi a guardarla da lontano?
Per il piccolo della zingara stesa, riversa sul cartone inzuppato del parquet della stazione dove qualcuno avvicinandosi oltremodo, senza perdere la rincorsa, lancia dall’alto una monetina e sprizza dalle scarpe qualche goccia di acqua putrida che appesantisce il cartone sfrangiato. Perché vorrei non percorrere più le sue strade? La mia Napoli è tutta lì, uno sconfinato, sporco, desolante parquet di plastica nera dove ti sorride solo qualche cicca ancora gialla. Perché non amo più le sue tante e decantate contraddizioni? Una volta scherzavo sulle sue pieghe putride, e ti dicevo che a Forcella o nei vicoli di Napoli avresti potuto trovare anche i pezzi di ricambio di uno shuttle e addirittura la bomba atomica, all’insaputa dei nostri amici americani. Oggi non ho più la forza né il coraggio di scherzare. La mia ironia si raffredda e muore lì, in quel vicolo, davanti ai volti prosciugati e sdentati dell’uomo e della sua triste compagna che attendono alla loro misera bancarella.
Quei giocattoli imbustati in cartoncini ormai logori stanno sulle tavole di legno a raccontare la loro storia e il loro sopito tormento, nella speranza che qualcuno compri un po’ del loro tesoro. Le palme aperte, gli occhi persi e il corpo riverso al bidone del fuoco per impadronirsi di un sussulto di calore e di benessere tra il marciume, i listelli dei cassettini sventrati, i pezzi di legno verniciati ed i cartoni colorati. Quei volti, quegli sguardi, non hanno conosciuto la fierezza dei pastori deformi di San Martino. Sfavillanti salumerie espongono decine di prosciutti rigorosamente di Parma, forme di parmigiano, salmone a scelta, caviale, champagne, frutta esotica e cataste di merce svariata, accatastata e ammassata ordinatamente senza un angolo libero, con depositi e budelli zeppi che si inoltrano fino al centro della terra. Bancarelle, bancarelle e ancora bancarelle, tutti stanno lì a vendere la miseria a metà prezzo e a svendere i loro sogni. Tra le merci esposte, ragazze nigeriane, iugoslave, polacche o napoletane che vendono il loro corpo, la loro rabbia, talvolta un sorriso e un po’ d’amore vero per poche lire.
Il pizzaiolo mette il fuoco del San Marzano sulla pizza e il pallore della luna sul suo volto. I piccoli tirano i loro scooter ipnotizzati dalla propria arroganza e dal senso di superiorità che ogni napoletano dabbene inculca nei propri figli. Il giovanottone abbronzato, nella giacca larga, dà ordini e pretende riverenza dal vecchio. La madre porta sottobraccio con orgoglio la figlia in minigonna, che rappresenta una delle poche risorse per appagare la propria voglia di grandezza. Ci sono tanti signori con la cravatta che si aggirano per questi vicoli, dribblano i rifiuti con nonchalance e di sera si riparano nelle loro dimore principesche e asettiche del Vomero. La povera gente lì nel basso si chiude nella tana e spranga la porta. Il giorno dopo si rinasce, il vicolo si colora, il banco del pescivendolo si stende, stringe la strada. Esplode il rossore delle triglie accanto ai calamari flaccidi da poco scongelati, la spigola cuppiata lì sul banco come stesse ancora in cerca della sua tana, il polpo vivo si stende e lascia mirare lo spettacolo della sua sventura. I bagliori del mare si rincorrono ancora tra le alici, le aguglie, i sauri, le sarpe, i saragozzi, le orate e i rotonni.
Spazi ampi e regali si susseguono a strade impenetrabili sventrate dai rumori e dai gas di scarico. Uomini e cose ammassate oltre misura si dibattono e si consegnano inerti alla promiscuità, in questa città sotterrata dal proprio fragore. Nei vicoli stretti, concepiti per sottrarsi alla calura dei mesi estivi, bollono odi e rancori, amori e livori e talvolta sgorgano tenere e delicate storie umane. Le Madonnine e i Santini dalle edicole e dagli altarini blindati stretti nella polvere, sentono e vedono il gran daffare della sopravvivenza, accettano ogni sorta di raccomandazione e di imprecazione. Napoli ha il più vasto campionario di uomini della Terra: uomini sprezzanti e immondi fanno la fila e viaggiano sullo stesso autobus con altri gentili e sensibili.
Insomma, quanti uomini, quante macchine, quanti sogni, quanti orrori ci sono in questa città? Quante città ci sono in questa città? Questo lo sa solo Napoli, la mia Napoli.
Questo articolo è stato scritto da Giuseppe Aprea.
Avvocato civilista di Napoli, ama scrivere di turismo, usi e costume, tradizione e cultura.
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